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Il complesso apparato che costituisce il sistema delle caste in India è una struttura gerarchica che stabilisce e contestualizza vari livelli di stratificazione a carattere sociale, i quali si basano esclusivamente e rigidamente sull’ereditarietà della condizione relativa alla popolazione indiana. Pur essendo stata soppressa sin dal 1950, questa antichissima struttura fa ancora sentire i propri influssi nella ripartizione dei posti di lavoro, nelle delicate dinamiche politiche, nella circolazione dei beni ed ha le proprie basi su regole religiose di tipo arcaico, molto radicate a livello sociale.
Nella religione induista si afferma che l’anima è impegnata nel suo incessante percorso di purificazione che la vede reincarnarsi (il samsara, l’eterno ciclo di vita, morte e rinascita, spesso raffigurato come una ruota proprio a evidenziare la sua ciclicità) per raggiungere la liberazione grazie alle virtù sviluppate in ciascuna vita. Un esempio concreto ci aiuterà a comprendere meglio: nello specifico, nascere come membro di una casta di livello inferiore, in base al sistema della casta indiana, significa essere stato un peccatore nell’incarnazione precedente.
Al contrario, nascere sotto la casta indiana dei brahmani, che ricopre il più alto livello nella gerarchia, dimostra che l’anima della persona è pura e che, se saprà vivere un’esistenza onesta e integerrima, potrà ottenere il nirvana, cessando di restare intrappolata nel ciclo morte-vita-rinascita. Se così non fosse, se in vita non ci si conduce secondo i più santi valori morali, ma si cadesse nella tentazione e nel peccato, l’incarnazione successiva ci vedrebbe appartenere ad una casta di livello più basso.
Il senso specifico del concetto di “casta”, può essere pertanto analizzato in base a due diversi criteri:
Le caratteristiche primarie, quelle più conosciute, che determinano la struttura delle caste sono le seguenti:
La parola ‘casta’ (dalla radice latina castus, che significa ‘puro’), fu inizialmente introdotta in India dai portoghesi. Questo termine, a dire il vero, deriva da una non corretta traduzione di due differenti concetti: quello di varna (che è collegato e concerne al ‘colore’) e quello di jati (in sanscrito Jat significa ‘classificazione’).
La nascita dei quattro ‘varna’ è descritta con cura nei testi induisti considerati sacri. Secondo la cosmologia indù, il primigenio Puruṣa (ossia l’uomo cosmico, il signore dell’essere) fu immolato e, dal suo corpo, scaturirono le caste come recita il brano dei Rgveda che segue:
«Quando smembrarono Puruṣa, in quante parti lo divisero? Che cosa divenne la sua bocca? Che cosa le sue braccia? Come sono chiamate ora le sue cosce? E i suoi piedi? La sua bocca diventò il brāhmaṇa, le sue braccia si trasformarono nello kṣatriya, le sue cosce nel vaiśya, dai piedi nacque lo śūdra.»
(Ṛgveda, X,90-11,12)
La parola Jati invece, si riferisce, oltre che alla qualifica di nascita, anche al tipo di lavoro svolto. Per comprendere meglio possiamo citare ad esempio la casta dei musicisti, la casta dei vasai, quella dei barbieri e via dicendo. Dunque esiste un numero consistente di queste categorie che potremmo definire “sottocaste”, le quali rispettano le stesse regole dei gruppi chiusi, legate all’endogamia: non è possibile infatti celebrare matrimoni che non siano contratti tra persone appartenenti allo stesso Jati. La struttura dei Jati può essere definita come rigida e fissa perché è mantenuta immutabile nel tempo grazie all’ereditarietà da padre in figlio.
Questi due concetti, “Varna” e “Jati”, riflettono un preciso tipo di organigramma sociale in base al quale ciascun uomo ha un suo posto all’interno della struttura collettiva ed ha i propri diritti e doveri. Questo tipo di rigidità e chiusura relativi all’emancipazione dell’uomo nel corso della sua esistenza può apparirci sorprendente specialmente se leggiamo quanto contenuto in una delle massime del Manusmrti, il libro delle cosiddette “Leggi Sociali” indù, originario del periodo post vedico che recita così:
“Meglio fare il proprio lavoro male che compiere il lavoro di qualcun altro bene.”
Vediamo adesso quali sono le quattro caste, i quattro ‘varna’, nei quali sono descritti i ruoli che rivestono coloro che ne fanno parte. Si tratta dunque di quattro grandi classi all’interno delle quali la collettività è divisa in modo gerarchico:
Per concludere abbiamo la casta dei ‘dalit’, gli ‘intoccabili’, che sono collocati all’esterno del sistema caste e hanno il compito di svolgere tutti i mestieri considerati impuri come seppellire le carcasse degli animali, occuparsi della disinfestazione di topi e parassiti o lavorare il cuoio. In quanto intoccabili non potevano e non possono tuttora trovarsi nello stesso ambiente con gli appartenenti alle altre caste né tanto meno mangiare insieme a loro. Il loro triste destino li segue anche nel momento della morte, poiché gli intoccabili non possono essere cremati.
Da notare che, le prime tre caste indiane (Brahmani, Kshatriya e Vaishya) sono definite Dvija, che significa “nati due volte”, poiché simbolicamente i loro membri vivono una seconda nascita per l’attribuzione di un particolare merito grazie al cordone sacro ricevuto durante la cerimonia di iniziazione (Upanayana).
Coloro che appartengono alla quarta casta e tutti i fuoricasta (dalit) sono invece definiti come “nati una volta” poiché non hanno accesso ad alcun tipo di cerimonia.
Per comprendere al meglio la discriminazione portata dalla suddivisione in caste, si pensi che in occasione dei pasti, qualunque persona può accettare del cibo da un bramino ma, per lui stesso, ricevere cibo da una persona appartenente ad una casta inferiore, significherebbe ricevere cibo “impuro”. All’opposto, se un membro degli ‘intoccabili’ si fosse permesso di prendere acqua da un pozzo pubblico, si sarebbe macchiato del delitto di aver inquinato l’acqua e impedito a chiunque di berla.
Nonostante le fonti ufficiali parlino di quattro caste indiane primarie, in realtà ve ne sono moltissime oltre a numerose sotto-caste. Vi sono infatti anche diversi gruppi come i Bhumihar, definiti “proprietari”, oppure i Kayastha, gli ‘scriba’, o ancora i Rajput, un ramo della casta Kshatriya appartenente alle regioni settentrionali. Abbiamo poi altri gruppi nati da corporazioni specifiche come i Garudi, gli incantatori di serpenti, o i Sonjhari, coloro che lavorano raccogliendo l’oro negli alvei dei fiumi.
Sull’origine della suddivisione in caste tipica dell’India abbiamo una prima tesi datata 1916, la quale si riferisce ad una teoria elaborata dal sociologo Max Weber, presente nel suo libro che tratta delle religioni indiane, Induismo e Buddhismo. La tesi avanzata da Weber si basava sulla somiglianza emersa, a suo dire, tra il sistema delle caste e la struttura europea ai tempi dell’Ancien Régime (tale espressione fu usata dalla rivoluzione francese per descrivere la vecchia modalità adottata dalla politica e dalla vecchia aristocrazia che era in procinto di essere eliminata. In contrapposizione nacque il motto “libertà ed uguaglianza” al quale fu aggiunto poi anche il termine “fratellanza”).
Molto probabilmente, infatti, è possibile che in India, originariamente, la società fosse ‘tripartita’, con i nobili e benestanti Kshattrya al comando, appoggiati dalla classe sacerdotale dei Bramini, e la terza classe sociale, fosse costituita dai lavoratori. Successivamente, forse a seguito di un’eccedenza di donne o uomini rimasti vedovi, si è verificata una sorta di migrazione di questa tipologia di persone dalle loro caste di appartenenza e ciò potrebbe aver favorito la creazione di una nuova casta. Questa teoria spiegherebbe la differenziazione tra i commercianti (Vaishya) e i servitori (Shudra) che nel vecchio continente europeo, per lo meno fino alla creazione della borghesia ai suoi albori, non era così marcata.
Una reiterazione di questo processo, verificatosi anche per le ultime due caste potrebbe aver creato le condizioni ideali per la nascita della casta degli intoccabili.
Vi sono altre teorie, più recenti, che basano la loro spiegazione sull’origine delle caste indiane non su un collegamento storico con l’Europa, bensì supponendo un collegamento al pregresso storico/culturale dell’India.
Nel corso dei secoli, il continente indiano ha sperimentato un poderoso avvicendamento di migrazioni da parte di popoli differenti, che sono poi diventati stanziali distribuendosi su diverse regioni e mantenendo intatto il proprio bagaglio culturale e tradizionale, oppure abbracciando in toto le tradizioni del popolo che vi si era installato in precedenza.
In base a studi sulla genetica, svolti di recente, sembra che l’integrazione si sia sviluppata in modo non del tutto facile. Sono state identificate due sotto-categorie della popolazione di cui la prima, i Dravidi, o ‘Asi’ (‘Ancestral South Indians’) rappresentano la numerosa popolazione con la pelle più scura stabilitasi nel sud della penisola indiana, mentre la seconda è rappresentata dagli Ariani o ‘Ani’ (‘Ancestral North Indians’) che hanno la pelle più chiara, stabilitisi nelle regioni del Nord. Oltre a questi due consistenti gruppi, sono stati individuati altri 25 gruppi di persone con caratteristiche genetiche diverse.
La reiterazione delle disuguaglianze degli alleli all’interno di questi gruppi nel continente indiano, è notevolmente più grande di quella riscontrata nei popoli d’Europa. Questa teoria evidenzia la possibilità che vi siano stati secoli di matrimoni organizzati tra persone appartenenti allo stesso gruppo d’origine.
Su questa base, infatti, e cioè sulla progressiva diffusione dell’endogamia, si fonda la prima tesi del famoso antropologo indiano Ram Nandu, in relazione alla crescita e all’espansione del sistema indiano delle caste.
La seconda tesi di Nandu si orienta verso un percorso di inclusione. Lo studioso ha dunque ipotizzato che le popolazioni denominate “ariane”, che possedevano già una struttura organizzata in modo gerarchico, abbiano ad un certo punto deciso di inserire, in modo progressivo, anche i componenti delle altre popolazioni indigene e i membri delle tribù, all’interno del loro sistema. Sebbene questa seconda tesi vada in conflitto con la precedente, ha dalla sua che potrebbe spiegare il rafforzamento del numero e il consolidamento delle caste e sotto-caste arcaiche.
Vi è poi una terza tesi di Nandu la quale parla di una metamorfosi con una graduale e crescente espansione dei clan (chiamati gotra) in caste, dove quest’ultime hanno poi accettato, utilizzato e conservato, la tradizione del matrimonio combinato tra membri di uno stesso nucleo sociale.
Il “Patto di Poona”, stipulato il 24 settembre del 1932, è un accordo siglato nella Prigione Centrale di Yerwada a Poona, tra il Mahatma Gandhi e il capo dei movimenti Dalit, B.R. Ambedkar. Poco prima che si verificassero le prime avvisaglie degli scontri che condurranno poi l’India verso l’indipendenza, Ambedkar era determinato a chiarire con precisione il futuro ruolo, nella Nuova India, delle classi che lui definiva “Depressed Classes”.
Il Mahatma Gandhi, per l’appunto, era intenzionato a raccogliere il sostegno di tutto il popolo indiano, non solo della classe dirigente o dei ricchi influenti ma anche e soprattutto dei semplici cittadini, compresi quelli più umili e delle caste inferiori. Sia Gandhi che Ambedkar, nonostante avessero visioni differenti e in alcuni casi anche in contrasto sulla suddivisione delle caste, desideravano realizzare un’India amministrata con le caratteristiche di uno stato laico, non fondato su divisioni di origine religiosa.
Bhimrao Ramji Ambedkar, nato a Mhow Cantonment il 14 aprile del 1891 e morto a Delhi il 6 dicembre 1956 è un antropologo, storico, giurista, filosofo e politico che fece parte di coloro che realizzarono la costituzione indiana. Ambedkar apparteneva alla casta indiana del Dalit (gli ‘intoccabili’), e nel corso della sua vita scrisse diversi saggi sul problema della discriminazione e sulle problematiche causate alla popolazione indiana dal sistema delle caste. Nei suoi scritti si è impegnato nel descrivere la difficile situazione delle persone che appartenevano alla casta degli intoccabili, la stessa di cui lui faceva parte, descrivendo come, sin dalla nascita, questi individui subivano pesanti discriminazioni ed erano ghettizzati o cacciati non soltanto dai membri delle altre caste per cause religiose ma perfino da chi professava una religione differente da quella induista. Fu grazie alle conferenze che Ambedkar tenne alla Columbia University negli Stati Uniti che la sua teoria si diffuse e divenne popolare. La sua lotta sincera contro tutte le forme di discriminazione e la sua ferma determinazione a scardinare il sistema delle caste fece emergere la situazione reale della società indiana: disgregata, disunita e in perenne conflitto al suo interno.
Per comprendere al meglio la visione di Gandhi in relazione all’argomento, possiamo leggere questa sua affermazione:
«Io penso che le caste abbiano salvato l’Induismo dalla disintegrazione. Ma come tutte le altre istituzioni hanno sofferto di “escrescenze”. Io considero fondamentali, naturali ed essenziali soltanto le quattro divisioni. Le numerosissime sotto caste possono essere qualche volta un vantaggio, ma spesso rappresentano un impedimento.»
(M.K. Gandhi)
Gandhi, dunque, per lo meno durante la sua giovinezza, non condivideva la posizione avversa di Ambedkar nei confronti del sistema delle caste. Nella sua affermazione appena citata, infatti, ne descrive i vantaggi di tipo sociale, ottenuti con la stabilità raggiunta grazie al fatto che ogni cittadino indiano, tramite questo sistema, occupava un certo spazio e svolgeva uno specifico compito. Gandhi affermava che tra le varie caste indiane vi fosse interdipendenza e non contrasti o contese.
Se Ambedkar segnalava punti di rottura e scissioni, Gandhi intravedeva nel sistema unione e funzionalità reciproca. Tra l’altro Gandhi evidenziava una netta distinzione tra Varna e Jati, favorendo le prime e ritenendo pregiudizievoli le seconde. Dopo poco tempo, però, modificò la sua idea, arrivando ad affermare che il sistema delle caste, nella forma raggiunta a quel tempo, era il logico risultato della tradizione religiosa che, nel mondo attuale, si era snaturata e doveva essere considerata come sbagliata o come un’impostazione impossibile da condividere. Gandhi evidenziò, inoltre, che le discriminazioni favorite dalla suddivisione in caste avevano un potenziale dannoso sia per la serenità spirituale della persona, sia per suo benessere economico e, indirettamente, anche per la situazione finanziaria della nazione.
Lui stesso poi, si fece garante del riscatto sociale degli intoccabili (Dalit), creando, per definirli, il termine Harijian, parola che significa “figli di Dio”.
Dopo la conquista dell’indipendenza, l’India poteva contare su ceti sociali dinamici, su una borghesia in espansione nonostante le divisioni interne, su un’economia rilevante ma non completamente strutturata e, principalmente, su un gran numero di contadini.
Dietro le disuguaglianze e gli scompensi a livello sociale, c’era l’arcaica convinzione che l’unica maniera per conservare gli equilibri nella collettività fosse che ogni gruppo (sia casta che sotto-casta) eseguisse i propri compiti all’interno del proprio spazio e in genere conservasse il proprio stato inalterato come in passato.
Grazie alla graduale espansione della democrazia, anno dopo anno, si è arrivati all’epoca moderna e la situazione si è trasformata in modo radicale. Ad oggi, specialmente nelle città più grandi, la struttura delle caste pare sia stata superata almeno per la maggior parte della popolazione e, di conseguenza, anche l’arcaica classificazione tra purezza e impurità ha cessato di avere la sua massiva influenza.
Le tradizioni più radicate, invece, come quelle relative ai matrimoni tra componenti della stessa casta, continuano tutt’oggi ad essere presenti, specialmente nelle zone rurali più remote o conservatrici e all’interno dei gruppi tribali.
Secondo la legge, grazie all’articolo 15 della nuova Costituzione Indiana entrata in vigore a partire dal 1950, le discriminazioni legate alle caste sono ad oggi proibite.
Lo Stato infatti ha sancito che nessun cittadino può essere discriminato a causa della propria razza, della religione, del sesso, della casta o del luogo di nascita. Per lo stesso motivo a nessuno può essere impedito di accedere a negozi, ristoranti, locali per l’intrattenimento e, inoltre, nessuno può essere interdetto, sempre per gli stessi motivi, all’uso dei pozzi, dei serbatoi, dei bagni e di tutti i locali ad uso pubblico.
È stato poi sancito, con l’articolo 17 della Costituzione che l’intoccabilità è stata di fatto abolita. L’articolo infatti specifica che, oltre ad essere abolita, si fa anche esplicito divieto di praticarla e che, qualunque sua applicazione che causi disagio, costituirà un reato punibile in base alla legge.
Purtroppo, nonostante questa significativa presa di posizione del governo, la situazione non è stata completamente risolta poiché vi sono tantissimi Dalit (o ‘paria’) che, pur avendo guadagnato il diritto al voto e alcune facilitazioni per lo studio ed il lavoro, continuano ad essere praticamente emarginati dalla collettività. Vivono ad esempio in baracche posizionate nelle aree più povere delle città, svolgono lavori faticosi e umili come la pulizia delle strade o ‘bonifiche’ di vario tipo, oppure, ancora peggio, si ritrovano a mendicare.
A livello culturale e sociale tali discriminazioni feriscono l’animo, soprattutto perché sono presenti in una terra che vanta una cultura millenaria in fatto di evoluzione spirituale. Tuttavia, proprio perché si tratta di una nazione che ha un legame antico e robusto con il percorso di rettificazione dell’animo umano, tali dicotomie a livello sociale molto probabilmente assumono il ruolo di passaggi catartici per giungere ad un più alto livello di consapevolezza. Tutto ciò non toglie il magico fascino al continente indiano ma, al contrario lo fa amare ancora di più nonostante le sue profonde contraddizioni.
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